LE ORIGINI DELLA NOSTRA SPECIE

L'uomo in quanto essere capace di produrre cultura, ovvero di intervenire con il proprio ingegno per affrontare e risolvere i problemi legati alla sopravvivenza.
La cultura consiste di progressive esteriorizzazioni di potenzialità fisiche e mentali.
Nell'ambito degli studi antropologici per molto tempo si è ritenuto che l'evoluzione culturale abbia seguito l'evoluzione organica.

Questa concezione ha fatto sfondo alle riflessioni degli antropologi culturali fino a quando è stata messa in discussione dalla paleoantropologia. Il lavoro sul campo dei paleoantropologi assomiglia un po’ a quello degli investigatori che indagano per scoprire l’autore di un delitto: richiede pazienza, metodo, attenzione ai minimi dettagli e… una buona dose di fortuna. 1 Il primo passo consiste nell’individuare il sito giusto: si può scegliere di scavare in una zona in cui sono già state fatte scoperte interessanti, oppure esplorare una nuova regione. 2 Il secondo passo richiede l’esercizio paziente dello spirito di osservazione. Dopo avere individuato la zona delle ricerche, gli studiosi passano infatti a perlustrare il terreno con i loro occhi esperti, nella speranza di scorgere anche solo un piccolo frammento osseo: dal momento che raramente affiorano crani interi o ossa complete, più spesso sono minuscole schegge fossili ad attirare l’attenzione degli antropologi. 3 Se emerge qualche reperto significativo, iniziano le vere e proprie operazioni di scavo: l’area in cui sono stati rinvenuti i resti viene delimitata e suddivisa in settori.

Le ricerche sui progenitori dell’uomo ebbero un deciso impulso nel XX secolo. Una data cruciale in questo senso è il 1925, perché nel febbraio di quell’anno il professor Raymond Dart (1893-1988), docente all’Università di Johannesburg (in Sudafrica), annunciò la scoperta di un essere intermedio tra le scimmie antropomorfe e l’uomo, che chiamò Australopithecus africanus, cioè “scimmia dell’Africa del Sud”. Il reperto rinvenuto da Dart apparteneva a un ominide vissuto due milioni e mezzo di anni fa, di aspetto scimmiesco, con due sole caratteristiche umane: la dentatura e l’innesto del cranio sulla colonna vertebrale (tipico dei bipedi a stazione eretta). Dart fu il primo a intuire che l’evoluzione dei progenitori della nostra specie era iniziata con il passaggio dalla quadrupedia al bipedismo, cioè con la “liberazione” delle mani.




Verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, gli antropologi keniani di origine inglese Louis e Mary Leakey (1903-1972 e 1913-1996) attirarono nuovamente l’attenzione degli scienziati sull’Africa orientale. Nel 1959, infatti, nella gola di Olduvai, in Tanzania, Mary Leakey scoprì dei fossili di ominidi vissuti circa due milioni e mezzo di anni fa, frammisti a pietre scheggiate. I Leakey si convinsero di avere trovato il primo rappresentante del genere umano, che chiamarono Homo habilis, per sottolineare la sua capacità di creare e usare strumenti in pietra, capacità che i “cugini” australopitechi, pur presentando caratteristiche fisiche molto simili, non possedevano.






Le due scoperte del secolo scorso che ebbero maggiore risonanza risalgono tuttavia agli anni Settanta: si tratta di uno scheletro di Australopithecus afarensis, noto con il nome di “Lucy”, e delle impronte di Laetoli. Nel 1974, ad Afar, in Etiopia, una spedizione internazionale diretta dall’americano Donald Johanson (nato nel 1943) e dal francese Yves Coppens (nato nel 1934) dopo molte ricerche trovò uno scheletro di ominide femmina completo al 40%. Scherzosamente battezzato “Lucy” (dal titolo di una canzone dei Beatles allora assai popolare: Lucy in the Sky with Diamonds), il reperto rivelò presto la sua eccezionale importanza: si trattava di una femmina di circa vent’anni, completamente bipede ma con una buona capacità di arrampicarsi sugli alberi, vissuta 3,6 milioni di anni fa.

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